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Gianfranco Spada, architetto in Spagna

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Pubblicato in: Voglio vivere così, Italia
Di Geraldine Meyer
– Fonte: www.voglioviverecosiworld.com/rubriche/professionisti-e-manager/gianfranco-spada-architetto-in-spagna
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Cosa vuol dire esercitare una professione all’estero? Cominciamo una serie di interviste che ha come scopo proprio quello di focalizzarsi sull’aspetto lavorativo di un espatrio, per conoscere, di volta in volta, il mercato del lavoro di un determinato paese. Interviste che vogliono mettere in luce l’aspetto di opportunità lavorativa data da un’esperienza all’estero. Ormai il mercato del lavoro, con le sue dinamiche, non può più avere confini nazionali; e l’arena su cui ci si può confrontare è il mondo intero. Nessuna fuga dunque, nessuna aspirazione a paradisi tropicali ma voglia di aprirsi ad altri ambienti lavorativi. Oggi parliamo con Gianfranco Spada, giovane architetto di Bitonto, dal 2002 a Valencia. Una laurea in architettura all’Università di Venezia e poi, grazie ad Erasmus, un esperienza a Bruxelles. Poi altre città come Londra e Barcellona. A Valencia Gianfranco fonda l’associazione ARQUitectos ITalianos en ESpaňa, la Arquites. L’obiettivo dell’associazione è quello di creare dibattito e sinergie tra due culture architettoniche dalla storia ricchissima e valorizzare il lavoro degli architetti italiani in Spagna. Ma l’associazione organizza anche corsi e conferenze, oltre a fornire consulenza gratuita a coloro i quali volessero svolgere la professione di architetto in Spagna. Il sito dell’associazione, su cui trovare ulteriori informazioni è www.arquites.org.

Come e quando ha deciso di trasferirsi in Spagna?

In Spagna ci sono arrivato nel 1999, appena laureato e dopo essere stato a Bruxelles per tre anni. Non è stata una decisione meditata più di tanto; mi sono sempre sentito abbastanza libero di muovermi, anche tra paesi diversi, semplicemente per una questione di curiosità e conoscenza. Le differenze linguistiche e culturali non solo non le ho mai percepite come barriere, ma anzi, come stimoli; e molte volte, proprio queste differenze sono state motivo sufficiente per farmi avvicinare a determinate realtà. Nel 1999 ero semplicemente stanco del clima di Bruxelles e quindi ho deciso di ritornare un po’ al Mediterraneo e Barcellona mi sembrava in quel momento la città idonea.

Qualche hanno fa la Spagna ha dato un notevole impulso all’architettura, dando vita a imprese che hanno ridisegnato completamente alcune città. Ora com’è la situazione?

La situazione architettonica spagnola in questo momento non è molto diversa da qualche anno fa; e questo proprio perché negli ultimi quindici anni si sono costruite una serie di infrastrutture di cui gli spagnoli possono godere, senza la necessità di farne delle altre. La situazione, come vede, è ben diversa da quella italiana dove le infrastrutture realizzate negli stessi anni sono scarsissime.
Quando parlo di infrastrutture non mi riferisco certamente a quei progetti pieni di pomposi aggettivi come il ponte sullo stretto, bensì a piccole e medie infrastrutture di tipo locale, come musei, centri culturali, biblioteche, piazze, parchi. La Spagna, per questa ragione, nonostante alcuni casi specifici, potrà vivere molto bene di rendita architettonica; le cose fatte rimangono, sarà difficile, nel bene e nel male, tornare indietro.

C’è una città spagnola in particolare che, secondo lei, ha vissuto un restyling particolarmente interessante? E quella invece che, in un ipotetico progetto a lei affidato, avrebbe le maggiori potenzialità per un cambiamento interessante?

A tutti verrebbe in mente immediatamente, come risposta logica, la città di Barcellona. Pero’, pensandoci bene, il caso Barcellona rappresenta forse l’eccesso a cui si giunge spingendo un po’ troppo la macchina del marketing urbano. La percezione che la gente ha di Barcelona, non riflette assolutamente la Barcellona reale e, un po’ come nelle «Città invisibili» di Calvino, la città percepita è solo un riflesso manipolato di un paesaggio urbano e sociale ben diverso. Per questo quindi, dovendo scegliere, direi piuttosto San Sebastían, dove il restyling è stato fatto in modo più discreto, quasi mimetico, e senza quei fronzoli barocchi fatti a Valencia; low-profile come direbbero gli inglesi.

Ad oggi, secondo lei, è possibile parlare di una scuola spagnola architettonica? E, se sì, che caratteristiche ha?

No, non parlerei di una scuola spagnola, come non parlerei di una scuola italiana, francese o di qualsiasi altro paese. In questo momento gli architetti hanno abbandonato le “scuole” per imporre il proprio individualismo, ovvero proprio il contrario delle scuole. Alcuni parlano di fattori comuni nell’architettura realizzata negli ultimi anni in Spagna, e cercano di vedere in questi una possibile scuola. Pero la mia opinione è che questi fattori sono riscontrabili semplicemente perché, a differenza per esempio dell’Italia, si è costruito talmente tanto che alla fine qualche cosa in comune la si trova.

Anche in Spagna esiste qualcosa come il nostro albo professionale?

Sì, sono i Collegi, anche se la loro funzione e struttura è molto diversa da quella italiana. La differenza fondamentale è che i progetti, prima di essere consegnati ai clienti, devono essere verificati a livello documentale dal Collegio, che appone, in caso positivo, il cosiddetto visado o timbro. A parte questa differenza sostanziale con l’Italia, direi che l’Albo spagnolo è molto più forte e offre molti più servizi di quello italiano, che in definitiva è un mero registro professionale.

Una laurea italiana è automaticamente riconosciuta in Spagna?

La laurea è riconosciuta in quanto tale, però un laureato in architettura in Italia deve, per poter esercitare in Spagna, aver superato, come in Italia stessa, l’esame di abilitazione professionale; cosa che non è necessaria per i laureati spagnoli.

Per esercitare la professione di architetto ha dovuto fare qualcosa di particolare, dal punto di vista burocratico?

L’iter burocratico è abbastanza semplice e dura all’incirca sei mesi: è sufficiente inviare una serie di documenti al Ministero spagnolo, e si riceve a casa il titolo di architetto.

Quali sono, secondo lei, gli architetti spagnoli più interessanti oggi e perché

Per me gli architetti interessanti sono quelli che realmente si compromettono con una visone etica dell’architettura. Stiamo assistendo da anni, e non solo qui in Spagna, ad una ondata di architetti e architettura gossip, dove la vanità e il narcisismo personale hanno avuto il sopravvento e la qualità architettonica è stata ridotta ad una mera questione estetica, ad una pratica ludica, quasi pop, fatta di stupidaggini e trovate pubblicitarie. Approfitto per rivendicare il mio interesse per quell’architettura anonima fatta da quei Mario, Carlos, Luís, Raúl, Vicente che, pur anonimi, e senza essere archistar, nel loro piccolo contribuiscono realmente, con la loro professionalità, ad una società migliore.

Quali lavori ha seguito in Spagna? E ora sta seguendo qualche progetto in particolare?

Come professionista autonomo ho realizzato numerose tipologie di progetti, come case unifamiliari, edifici per appartamenti, negozi; come consulente esterno per imprese di architettura e ingegneria, ho partecipato a progetti di infrastrutture come la metropolitana di Valencia, o il centro pubblico di servizi «Barcelona Activa». Adesso preferisco progetti che prevedano una relazione più diretta con i committenti, ho la necessità di recuperare quel modo di fare “sartoriale” dell’architettura fatta a misura, che è una delle qualità a cui do più valore; forse anche perché provengo da una famiglia che, per generazioni, si è dedicata al mondo della sartoria artigianale. Il progetto a cui sto lavorando attualmente è una villa campestre vicino Valencia: grazie alla buona sintonia con il cliente, un costruttore siciliano, stiamo portando avanti l’idea di rivedere in chiave moderna i principi basici di una Domus romana, e “rispolverare” quindi nell’agro valenciano quel dialogo italo spagnolo iniziato ormai diversi secoli fa.

Nel suo lavoro quali sono le difficoltà che incontra maggiormente: burocratiche, organizzative, politiche?

Non affronto la professione in termini di difficoltà, credo semplicemente che il lavoro dell’architetto consista proprio nel risolvere problemi. La burocrazia è un percorso, l’organizzazione è una necessità, la politica una forma di dialogo. Mi piace immaginare, ritornando alla metafora sartoriale, un pezzo di tela elastica che il cliente tira da una parte, la burocrazia da un’altra, la legislazione, i costi, gli interessi politici a loro volta tirano da altrettante parti. Questo è il progettare per me: un pezzo di tela che deve essere abbastanza elastica per poter resistere a tutte le possibili variabili.

Sa dirmi quali sono le facoltà di architettura migliori in Spagna?

Per fortuna, e ancora una volta a differenza dell’Italia, qui in Spagna non c’è stata la moda folle di aprire facoltà di architettura in ogni paesino e villaggio, solo per far diventare professori architetti amici e raccomandati vari. Ritornando alla Spagna comunque, la facoltà piú rinomata è quella di Madrid, anche se Barcellona per altre ragioni è comunque una buona scelta.

A parte un discorso puramente estetico, da architetto, qual è la città spagnola più razionale e vivibile dal punto di vista architettonico e urbanistico?
Tenendo conto esclusivamente del punto di vista architettonico e urbanistico, che evidentemente non sono sufficienti per determinare la qualità della vita, direi Salamanca, una città medio piccola, che conserva una qualità architettonica altissima e con un’impronta urbanistica relativamente ben gestita.

La crisi sappiamo quanto ha colpito la Spagna. Cosa ha significato per lei dal punto di vista professionale? Ci sono settori che, nonostante ciò, continuano a lavorare bene e a rappresentare un’ opportunità per un architetto?

Tutti sembrano essere estremamente preoccupati per la crisi economica, che i telegiornali ci ricordano come un mantra quotidianamente. Personalmente sono preoccupato per ben altri tipi di crisi: la crisi dei valori personali, la crisi delle relazioni sociali, la crisi delle conoscenze trasmesse direttamente, la crisi della cultura immondizia. A livello professionale sono per me molto più gravi queste crisi più che la crisi economica in se stessa: per fare buona architettura purtroppo non è sufficiente l’aspetto economico, anzi in molti casi l’abbondanza in questo aspetto risultata nefasta. L’architettura, per come la vedo io, è una professione vocazionale, e non mi piace parlare di opportunità visto che l’opportunità, per me, sta nel fatto stesso di essere architetto. Se proprio devo rispondere direi che il settore con più opportunità, adesso che il boom della costruzione è per fortuna terminato, sarà quello dei progetti di demolizione; infatti sono stati costruiti diversi edifici pubblici totalmente inutili, la cui manutenzione è talmente onerosa che la demolizione è una soluzione utopica però efficace. Il problema temo, sarà la volontà politica.